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Essere o non essere

Il primo ricordo che ho del teatro è legato alla mia infanzia; eravamo tutti insieme, grandi e piccoli, ad aspettare con trepidazione l’entrata in scena di Arlecchino, per vedere un nuovo scherzo giocato a Pulcinella, o una nuova astuzia per avvicinarsi alla sua amata Colombina; aspettavamo i dispetti di Brighella, la barba aguzza di Pantalone, la grossa pancia del dottor Balanzone; e tutto questo, nel tranquillo scenario del Gianicolo, illuminati dalla luce bianca della domenica mattina che filtrava tra gli alberi.

Se mi avessero detto che quello non era uno spettacolo vero, con attori in carne ed ossa, ma semplicemente un teatro di burattini guidati da un abile burattinaio, non ci avrei mai creduto; perché ai miei occhi di bambina, tutto quell’entusiasmo che vedevo in scena e che sentivo dentro di me era reale ed era assolutamente vero.

Paradossalmente, proprio la ricerca di questa verità mi ha spinto a percorrere la via della recitazione e del teatro, luogo deputato alla finzione per eccellenza; e questa ricerca ha trovato conferma quando, il primo giorno all’Accademia D’Arte Drammatica, mi è stato detto che teatro è essenzialmente rapporto; rapporto tra attore e spettatore, tra attori e compagnia e soprattutto, rapporto tra attore e sé stesso. Ma io appunto dicevo a me stessa che in qualche modo, recitando, avrei potuto tirare fuori qualcosa che non riuscivo ad esprimere altrimenti, non capendo, invece, che solo quando fossi riuscita a recuperare “quel qualcosa”, sarei stata in grado di recitare al meglio.

Perché se i grandi personaggi del teatro continuano a parlarci ancora oggi e ad essere così vicini a noi, è per la loro profonda umanità, per la loro capacità di sentire al di là degli eventi che sono stati chiamati ad affrontare.

Chi di noi non si è mai sentito un po’ Amleto, completamente solo in un mondo che si fa prigione, del tutto in balìa dell’essere, l’esigenza di esprimere noi stessi, e del non essere, la parte delusa e arrabbiata che ci continua a ripetere che crescere non è possibile per noi, che il nostro sentire non potrà mai essere accettato e apprezzato.

Chi di noi non ha mai vissuto un amore struggente e tormentato come quello tra Romeo e Giulietta, convinti che la forza dell’amore si misuri in base a quanto fa soffrire; chi di noi non ha mai provato l’invidia di Iago, pronto a distruggere le qualità dell’altro perché crede di aver perso le sue; per non parlare delle volte in cui anche noi, come Macbeth, ci siamo lasciati trascinare dalle tre streghe della rabbia, dell’odio e dell’anaffettività, andando completamente alla deriva e perdendo noi stessi.

Ma il teatro ci parla anche di altro, racchiude nella sua origine l’esigenza fondamentale dell’uomo, alla base della sua identità, di esprimere totalmente sé stesso e farlo all’interno di rapporti che lo soddisfano appieno; ed infatti, fin dalle origini, nella Grecia del V secolo a.C., il teatro è stato simbolo di aggregazione sociale e festività, spunto di riflessione sui grandi temi della vita, della morte, dell’amore, per l’uomo che è alla ricerca di sé stesso.

Proprio l’enigma della Sfinge che fa riflettere Edipo su quale sia l’animale che al mattino ha quattro zampe, a mezzogiorno solo due e la sera tre, è un invito per l’uomo a ritrovare dentro di sé la risposta, in quell’esigenza di andare avanti, di separarsi da ciò che non gli corrisponde e non lo rappresenta più e continuare a crescere con un nuovo modo di vedersi e vedere.

È proprio nel vedere che il teatro trae la sua origine più profonda, come ci mostra l’etimologia della parola, dal greco ϑέατρον, ossia “luogo da cui si guarda“: è un guardare che scava dentro l’uomo e l’attore, che lo spinge a toccare la sua essenza più intima e a donarla agli altri, senza perderla; è un guardare che, in maniera straordinaria, dà la possibilità all’uomo di nascondersi dietro una maschera senza nascondersi affatto, per mostrare, come dirà uno dei più grandi pedagoghi e registi teatrali, Jerzy Grotowski, quanto «sia sottile la frontiera tra ciò che è vita e ciò che è arte.»

E proprio Grotowski spiega il teatro con le più belle parole mai dette, parole che sanno di incontro, di possibilità, di speranza e che racchiudono l’intima esigenza dell’uomo di aprirsi all’altro e riceverlo a sua volta

«Indispensabile non è il teatro ma qualcosa di completamente diverso. Superare le frontiere tra me e te: farmi avanti a incontrarti così da non perderci nella folla – o tra le parole, o in dichiarazioni, o tra pensieri finemente definiti. In principio, se lavoriamo l’uno con l’altro – toccarti, sentire che mi tocchi, guardarti, liberarmi della paura e della vergogna che mi provocano i tuoi occhi quando sono accessibile a essi, tutto intero. Non nascondermi, essere quello che sono.»

Grotowski sapeva bene che ciò che fa del teatro un vero teatro non è il velluto rosso del sipario, né le luci di scena, né le assi del palcoscenico; la sua vera essenza risiede nell’attimo in cui lo spettatore si lascia andare all’incontro e comincia il viaggio; perché il vedere in cui il teatro trova la sua origine non riguarda semplicemente il teatron, la gradinata da cui si poteva assistere allo spettacolo, ma è emblema dell’uomo che vede e si vede agire, che mostra la parte più profonda di sé e accoglie quella dell’altro; che sa che l’empatia non è immedesimarsi nel personaggio e perdere completamente sé stesso, ma è ritrovare il proprio sentire nascosto dietro la maschera che usiamo ogni giorno per difenderci, riconoscerlo nel personaggio e dargli vita senza perdere sé stesso; perché è quel sé stesso che permette di vedere l’altro nel senso più bello e profondo del termine, di entrare in empatia con lui sentendo ciò che egli sente e uscirne arricchito.

È proprio il nostro sentire che ci dà la risposta a quel famoso dubbio amletico: per vivere bisogna scegliere l’essere, e l’Amleto che è in ognuno di noi può crescere e opporsi a quel non essereche lo tiene bloccato; perché se l’attore, per etimologia, è colui che agisce, in realtà agisce perché sente, dando voce a ciò che di più bello nasconde dentro di sé.

E allora per celebrare la Giornata Mondiale del Teatro, è fondamentale celebrare quel sentire inesauribile che è dentro di noi e che nessuno, se non noi stessi quando ci perdiamo, può negare e portarci via, perché cresce ogni giorno con noi, chiede di essere custodito e ascoltato, e va alla ricerca di un sentire corrispondente; perché, come ci dice Shakespeare, il drammaturgo che massimamente ha scandagliato l’essere umano portandone alla luce la profonda bellezza «La ricchezza del mio cuore è infinita come il mare, così profondo il mio amore: più te ne do, più ne ho, perché entrambi sono infiniti.»

 

Jessica Cortini

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