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Primo Maggio – La festa dei lavoratori, rendiamola nostra

Haymarket Square, Chicago, Illinois, Stati Uniti, 1886. 1° maggio. Uno sciopero, poi soppresso in maniera violenta, è organizzato in America da parte di alcuni lavoratori che reclamavano il diritto ad una giornata lavorativa di 8 ore. La notizia della tragica conclusione della manifestazione travalica i confini del piccolo stato americano e arriva presto anche in Europa, dove ben presto viene istituita da molti paesi una giornata in ricordo di tali avvenimenti, che oggi conosciamo come Festa del Lavoro.
Chi potrebbe mai obiettare che questa appena ricordata non sia proprio la storia di quell’iniziale 1° maggio, la vera storia della Festa del Lavoro? Eppure, la storia che si dovrebbe ricordare forse non è solo questa.

Perché la realtà è che un insieme di fatti, date e luoghi, per quanto evocativi e formalmente corretti, non sono storia. Storia non è mera cronaca di eventi passati, ma anche ricordo affettivo degli esseri umani che, in una certa data e in un certo luogo, hanno dato vita a quei fatti.
La storia del primo maggio è quella di esseri umani che hanno scelto di dire “no” ad una realtà che li costringeva a mettere a rischio ogni giorno le proprie vite per meri scopi produttivi, rifiutando così l’idea di un uomo che esiste in quanto fabbricante e consumatore di beni concreti, di oggetti. Forse, l’intuizione di quel “no” era proprio in questo pensiero: la crescita dell’essere umano, la sua realizzazione, non dipende dalla quantità degli oggetti che produce o di cui dispone.

Ecco, forse dovremmo pensare che il 1° maggio non è ricordato solo per la richiesta delle 8 ore lavorative, ma per il senso di quella richiesta che, tutti, da oltre 120 anni, continuiamo a percepire. Se questa giornata è diventata storia, forse è per questo: perché ci ricorda, anche se sottilmente, che si può dire di no, rifiutando l’essere umano che si soddisfa solo di beni materiali, capitali e oggetti e svuota la propria vita di ogni contenuto affettivo.

Domandiamoci allora: possiamo festeggiare anche noi il 1° maggio?
Potremmo pensare di no. L’emergenza legata al Covid-19, le preoccupazioni per la nostra attività lavorativa o per i nostri collaboratori, la cassa integrazione, sono tutti elementi che ci spingeranno a scuotere la testa. Come si può festeggiare la Festa del Lavoro, se il lavoro non c’è o è ridotto, se lo stipendio non c’è o è ridotto? Come possiamo festeggiare se siamo rinchiusi in casa e limitati nelle nostre libertà?
Oppure, in uno scenario all’apparenza diametralmente opposto, potremmo pensare di sì. Il lavoro c’è, lo stipendio arriva puntuale, la carriera procede, il pomeriggio addirittura ci affacciamo in balcone e cantiamo l’inno nazionale insieme ai vicini. È la Festa dei Lavoratori e noi lavoriamo, in fondo siamo liberi, come non festeggiare?
La realtà è che entrambe le risposte sono errate e non soddisfacenti, perché hanno a che fare con un involucro esterno. L’interno, il senso risiede in realtà in altro. Per noi, festeggiare significa percepire il senso di quella storia, e impegnarsi per fare sì che diventi anche la nostra. Proporci, anche noi, come è stato per altri tanti anni fa, in lotta contro la violenza, la passività, la disumanità, nostra e degli altri.

Lottare perché l’interesse reale verso il nostro lavoro, i nostri colleghi e collaboratori diventi il “primum movens” delle nostre scelte, la premessa imprescindibile di ogni cambiamento futuro. Lottare perché crescano i rapporti, e non solo il business.
Che può voler dire ricordarsi di colleghi e collaboratori anche se abbiamo la serranda chiusa, oppure continuare a partecipare con reale interesse se invece la serranda è aperta.
Soprattutto, rifiutarsi di trasformare le limitazioni esterne in impossibilità interne. Cioè evitare che il “non posso” concreto, legato al momento storico che stiamo vivendo, si trasformi in impotenza e incapacità, come se il “fermo” della produttività dovuto al Covid-19 fosse lo specchio di un nostro blocco nella capacità di pensare, esprimerci, rapportarci e trovare nuove possibilità. Un po’ come se, con la conclusione di una storia d’amore, improvvisamente ci ritrovassimo a pensare di non poter più dare o ricevere amore: anche in quel caso, trasformiamo il “fermo” concreto della relazione sentimentale in blocco interno, che ci fa sentire non più in grado di amare. E non è così.

Per questo diciamo che oggi è necessario lottare per “non fermarci”, cioè resistere ai blocchi reali che ci troviamo davanti e continuare invece ad esprimere idee, cercare rapporti, realizzare una realtà affettiva, e quindi lavorativa, portando avanti la nostra storia e la nostra lotta a tutto ciò che si oppone a questa realizzazione.

Possiamo festeggiare anche noi il 1° maggio allora, come ricordo affettivo di persone interessate a realtà umane, e non come mera celebrazione di lavoratori deputati alla produzione. Come ricordo di un senso e una spinta alla realizzazione. Come ricordo di una storia di lotta per diritti e umanità, perché sia anche la nostra.

Mimmo Nesi

Eleonora Rutigliano

Cristina Piano

Valeria Murri

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