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Primo Maggio oltre i diritti e i salari

 

Cosa vorremmo festeggiare il 1° maggio, Festa dei Lavoratori? Le risposte che vengono pronunciate ogni anno dai pulpiti più autorevoli sono due: più diritti e salari migliori. Sembra difficile non essere d’accordo.

Se ci fossero più diritti, molto probabilmente, non vedremmo come un fatto straordinario l’assunzione a tempo indeterminato di una donna incinta, fatto di cronaca di questi giorni. Né assisteremmo a persone sui tetti dei palazzi o delle chiese, estrema denuncia per chi vive l’angoscia di un licenziamento inaspettato.

Se ci fossero maggiori salari, molto probabilmente, non sentiremmo parlare di “cervelli in fuga”, il fenomeno per il quale lavoratori di tutte le età e professioni cercano soddisfazione lavorativa all’estero, adducendo tra le principali motivazioni proprio la ridotta remunerazione in Italia con conseguente impossibilità di poter progettare un futuro.

È chiaro: diritti e salari sono elementi fondamentali. Ma siamo sicuri che siano solo questi gli elementi necessari per festeggiare al meglio la ricorrenza?

Me lo ripeto tra me e me mentre penso a Michela, educatrice di 31 anni con una laurea in Psicologia, che da 5 anni lavora in un piccolo asilo e dedica il suo tempo ai bambini dai 3 ai 5 anni. Non gode di diritti particolari, né ha un grande salario, come tante donne della sua e di tutte le età. Ma si diverte. Realmente. In genere indossa una maglietta macchiata di pennarelli di tutti i colori, spesso è seduta per terra, eppure basta meno di un minuto per capire che in quei bambini, all’apparenza così rumorosi, si cela la sua porta di ingresso per un’altra dimensione, che nessuna maglietta ben pulita o tavolo ben ordinato potrebbe mai replicare. Dimensione che scoprono gli stessi bambini insieme a lei, e che proprio per questo un giorno la ricorderanno, magari fugacemente, quando si troveranno a colorare per caso un dinosauro o una casetta con altri amici. Diritti e salari, penso tra me e me: è questo che desidererebbe per sé Michela, per sentirsi più realizzata?

Poi mi viene in mente Virginia, studentessa in medicina, che in questi giorni si è ritrovata quasi per caso ad ascoltare, insieme ad altri 800 studenti, la storia di Pietro Bartolo, dirigente medico del presidio sanitario di Lampedusa. Un’esperienza talmente forte da portarla a scrivere, unica tra 800 persone a farlo, affinché il senso di quella giornata fosse conosciuto a più persone possibile. Quel racconto è così diventato un piccolo testo pubblicato su Facebook, che trasmette tutta l’emozione di ascoltare la storia di chi da 28 anni si occupa di prestare soccorso o assistenza a chi sbarca sull’isola, e che sempre da 28 anni e con lo stesso impegno effettua le “analisi” su chi arriva ma non sbarca. In pochi giorni questo racconto ha raggiunto oltre 200 mila persone. Il tutto accompagnato, come sempre più spesso su alcuni temi, da minacce più o meno velate e accuse di partigianeria politica, a lei che ha solo raccontato una verità: “Non ho fatto come quelle donne che acidamente ti dicono “niente” ma poi non è vero che non era niente, solo che dovevi capirlo te. Ho scritto quello che c’è scritto”. Diritti e salari, penso tra me e me: è questo che desidererebbe per sé Virginia, per sentirsi più realizzata?

Filippo, meteorologo, ha invece scelto di coniugare una professionalità ricercata con l’esperienza dell’alpinismo d’alta quota, supportando dal “Campo Base” chi da lì parte per provare a salire sulla vetta delle montagne più alte della terra. Un supporto tremendamente concreto e fondamentale perché chi è in cima si affiderà sempre a lui per capire se il vento rimarrà costante o si alzerà, se all’improvviso verrà brutto tempo o addirittura pioggia. Un lavoro però, racconta lui stesso, costruito non soltanto sulle competenze tecniche, ma su “una strettissima e indispensabile sinergia, in cui la previsione si fa in due”: tra chi osserva il meteo dalla cima e chi verifica i dati sul monitor, in un’armonia tanto delicata quanto profonda e senza la quale, per quanti modelli matematici si possano consultare, quel supporto di Filippo perderebbe gran  parte del suo senso, se non tutto. Diritti e salari, penso tra me e me: è questo che desidererebbe per sé Filippo, per sentirsi più realizzato?

Io penso di no. E i tre esempi hanno il fine di aiutarmi a spiegare il perché.

Penso infatti che quello che tutti desideriamo dal nostro lavoro sia ridere come Michela, ascoltare la storia dell’altro come Virginia, lavorare in strettissima e indispensabile sinergia come Filippo. E che questo non dipenda dal nostro essere educatore, studente, meteorologo, o astronauta ma semplicemente dal nostro essere persone che in quel lavoro esprimono molto di più delle competenze tecniche o dei loro titoli: il loro essere umani, il loro tendere la mano e l’orecchio all’altro con il desiderio di farlo.

Che fine ha fatto oggi questo desiderio? Forse si è addirittura capovolta la prospettiva!

Oggi la libertà dal lavoro non viene festeggiata come giorno di riposo dopo tante fatiche lavorative; oggi al contrario diventa esigenza di lavorare per essere “liberi di essere stanchi” perché il lavoro è cosa rara. Il problema è che abbiamo dimenticato anni di lotte in piazza e di rivendicazioni che avevano restituito una dignità lavorativa, umana e sociale; oggi, come allora, dimenticando la storia che ha portato all’acquisizione dei diritti, il lavoratore ritorna ad essere un numero e si è persa la sinergia, il rapporto con gli altri, compagni e colleghi, in vista di un obiettivo comune.

Ma gli altri chi? In assenza di certezze, garanzie e tutele, a malapena ci si scambia un saluto perché siamo alienati dall’angoscia di non avere un “qualche cosa” che assomigli ad un lavoro; siamo sommersi da paure e tormenti più urgenti, come arrivare a fine mese, e in noi è rimasto solo il vuoto di una storia, dell’evoluzione dell’uomo di cui ormai abbiamo perso  le tracce. Per questo assistiamo a gesti esasperati di chi sale sui tetti per denunciare un vuoto, il vuoto della solitudine della perdita del lavoro e della storia umana.

Ripartiamo allora da queste tracce che, ormai flebili, sono esistite con tutto il valore e l’importanza storica, sociale, politica che hanno significato. Possiamo farlo rapportandoci gli uni agli altri ricordando insieme che le conquiste ottenute nascevano dalla possibilità di rapporto, di scambio e di integrazione di sapere, per sperare, proporre e lavorare insieme. Così daremo il giusto valore a questa festa non solo per ricordare chi ci ha preceduto ma per ricominciare insieme, proseguire, trasformare, crederci ancora.

In questa tendenza verso l’altro, ad accogliere e dare, penso risieda il senso reale della festa del lavoro. Lavoro che è il ricordo, la storia, l’impegno, la tenacia di Michela, Virginia e Filippo: “ingredienti” fondamentali per vivere questa festa festeggiando un tempo di speranza, crescita e realizzazione di ognuno.

Mimmo Nesi

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