“L’esistenza umana, fin dallo zigote, è sempre in rapporto con.”
M. Fagioli
Osserviamo affettivamente un bambino in difficoltà e immaginiamo…
Tutto ha inizio nel blu. Tutto inizia dal profondo del mare. Un mare calmo, imperturbabile, caldo ed accogliente. Tutto inizia da calde acque che accolgono un corpo ancora informe ma presente. Tutto passa attraverso la pelle, che accoglie qualcosa di non definito, che comunica un qualcosa senza nome, eppure perfetto. Mi sento protetto.
E io sto bene.
Succede poi che scade il tempo, qualcosa deve cambiare, il mare è in tempesta e nulla è più come prima.
Devo nascere.
Arriva il freddo e una luce che mi ferisce. Non la accetto, non sono come lei, la tengo lontana.
Chiudo gli occhi e vorrei tornare lì, dove tutto è cominciato. E ricordo.
Ricordo di un tempo in cui tutto era come desideravo, in cui la mia pelle dialogava con quel mare, ricordo quella sensazione vaga, sentivo qualcosa ed era calore, riconoscimento, rapporto umano.
Ricordo un prima in cui tutto era per me e io ero tutto per lui.
E poi?
E poi inizia una nuova vita: il rapporto umano dopo la nascita.
C’è il calore del latte che posso prendere dentro di me, c’è un seno. Posso tornare a stare bene. Poi quel seno va via. “Dove va? Non lo so”. Poi torna, torna anche quel latte caldo, torna l’amore ed io sto bene. Sogno, cresco.
Poi apro gli occhi, inizio a vedere sempre di più e se vedo una cosa poi questa va via, scompare come per magia, non c’è più ma poi ricompare. Io posso ricordare sempre di più.
Ma se sono stato deluso dal rapporto umano e quello che vedo va via ho paura che non torni più e mi angoscio. “Dove è andato? Tornerà? L’ho fatto sparire io?” Ed è così che non ricordo più, non riesco a parlare, non voglio essere toccato, mi devo proteggere.
Quello che il bambino sembrava aver conquistato si blocca, qualcosa si ferma, lo sguardo si perde e si svuota, compare un fantasma, il fantasma dell’assenza del rapporto umano.
La storia di questi bambini nasce dalla distanza fisica che non lascia il ricordo del rapporto, del calore, della presenza, della possibilità, della trasformazione e crescita.
I genitori raccontano di bambini “tranquilli” e “molto buoni” perché non fanno capricci e non danno fastidio: “È un bambino che dove lo metti sta”.
Ci vorrà ancora tempo perché i genitori capiscano che quel bambino non è così “caratterialmente”; la triste verità compare quando intorno ai tre anni il bambino non esprime alcuna parola. Arriva la diagnosi ed è come se all’improvviso calasse un muro. Il bambino che desideravano non c’è più e compare il senso di colpa, l’angoscia, la disperazione: “perché è capitato proprio a me?”
Inizia allora una staffetta alla ricerca della “cura”, dell’antidoto che possa salvare il proprio figlio ma che sembra impossibile da trovare. Poi ci sono le diverse scuole di pensiero: “Dall’autismo non si guarisce non è una malattia”, dicono alcuni esperti. Così i bambini spesso sono vittime di estenuanti accanimenti terapeutici, deprivazioni alimentari, esposizione a farmaci, viaggi lunghi alla ricerca di chi possa dare risposte, o anche semplicemente un contenimento.
È qui che quel muro diventa più alto, da una parte un bambino che è arrabbiato, non capisce e non riesce a farsi capire e dall’altra i genitori che non sanno cosa fare e pensano di non avere le risorse per aiutare il figlio. Due universi che non comunicano, un bambino che perde il suo nome e diventa semplicemente “autistico”.
Cosa succede a questi bambini? Qualcosa si interrompe e il bambino si chiude, si perde in quello che apparentemente può sembrare un mondo tutto suo, ma che in realtà è una prigione dalla quale è impossibile fuggire. Il mondo lì fuori è brutto, è pericoloso per lui che ha perso il ricordo del rapporto umano, quel calore, quel “prima” e dunque per lui diverrà impossibile affrontare il “dopo”. Per questo ogni passaggio è faticoso, ogni cambiamento è pericoloso, anche uscire di casa, meglio rimanere nei propri giochi, nelle routine che si conoscono e lo fanno sentire al sicuro; al sicuro, ahimè, del blocco della crescita.
Da qui, il tormento di girare su se stessi o intorno a qualcosa e l’angoscia che uscire da quel cerchio sia perdita di sé stessi e del proprio mondo.
Il bambino non guarda più, non si gira più se chiamato, non riesce a comunicare e se sta male può solo urlare, aggredire e buttarsi a terra.
Si sente spesso dire che questi bambini non sono interessati agli altri, al punto da sostenerlo, anche su rinomati manuali diagnostici. Nella mia esperienza, posso dire di non aver ancora mai incontrato un bambino che non fosse interessato a stare in rapporto. Se in quel rapporto, però, non trova un adulto disposto a comprenderlo, se verrà costantemente frainteso, perderà inevitabilmente la fiducia e la speranza, da qui, quindi, la chiusura, l’isolamento, l’allontanamento.
Fortunatamente ci sono anche testimonianze di adulti con autismo che raccontano storie diverse. In particolare ricordo la storia di Temple Grandin, una famosa donna autistica, nonché ingegnere riconosciuto negli Stati Uniti, la quale raccontava di come da bambina non riuscisse ad entrare nei giochi degli altri bambini perché era come se si “leggessero nel pensiero” e tra di loro ci fosse un legame a lei sconosciuto. Lei li guardava curiosa, divertita, attratta inevitabilmente dal mondo dei suoi coetanei, che le appariva divertente e sereno; quando però faceva un passo verso di loro tutto svaniva come in un sogno, tutti si allontanavano, la prendevano in giro. Era come se fosse improvvisamente uscito un drago a sua insaputa che le stava facendo terra bruciata intorno, un drago antico nato quando era molto piccola, un drago forte della sua corazza che non poteva essere scalfita ma che pesava terribilmente su di lei.
Un drago chiamato Autismo.
Come si può sconfiggere questo drago?
Qual è la sfida?
Trasformare l’impossibilità in possibilità, riempiendo il silenzio e il vuoto di contenuto e di presenza, vedendo, ascoltando e capendo il dolore e la delusione di chi ha perso la possibilità di rapporto.
Infatti quando i tuoi occhi incrociano i suoi, vedi quel bambino, sai del suo mondo e, anche se per un solo attimo hai catturato il suo interesse, in quel rapporto c’è tutto quello che stava cercando; questa è la strada da percorrere passo dopo passo, scivolone dopo scivolone e poi di nuovo crescita e salita, ancora paura della delusione, di nuovo il vuoto da riempire con un contenuto del contenuto degli affetti che sono coraggio e possibilità ma solo se gli adulti sono con lui. Se solo per un momento ci mettiamo ad osservare, sapremo di lui, dei suoi giochi, di quello che sa e che ama fare. Possiamo ripartire da lì, prenderlo per mano e andare alla ricerca di ciò che ha perso.
Essere un adulto che non vede solo l’esteriorità di un comportamento problematico ma che ne coglie l’essenza per comunicare al bambino che qualcuno c’è per lui, proprio come quel mare blu era lì per lui prima ancora di venire alla luce.
Capiamo allora perché il blu, il blu del rapporto, della possibilità, del ricordo. Il blu del mare. Il blu della speranza ma anche della certezza di ritrovare, oggi come allora, il rapporto umano.
Dott.ssa Annamaria Orsi