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Il linfoma: quando la cura diventa “prendersi cura”

“Mamma non riesco a respirare!”

“Papà come mai questo raffreddore non passa più?”

due semplici frasi che sentiamo spesso pronunciare dai bambini, a causa dei malanni di stagione. A volte capita però che sia più complessa e più lunga di una banale influenza. Per me, all’età di 5 anni sono state l’inizio di un viaggio lungo e faticoso che per fortuna è poi evoluto verso la realizzazione di una nuova me.
Per arrivare a questo sono passata per una strada piena di buche, curve pericolose e gallerie interminabili, chiamata linfoma, alla fine della quale però c’era in serbo per me una grande occasione. Pochi sono i ricordi che ho di quel periodo della mia vita, molti dei quali anche piuttosto dolorosi, altri carichi di affetto da parte dei miei familiari e dei medici che si sono presi cura di me. Tutti hanno continuato a credere nella possibilità della vita, me compresa, aiutata anche un po’ dalla vitalità dei bambini, capaci di vivere tutto con estrema forza e voglia di vincere. Il “brutto raffreddore, il mio linfoma, mi ha attaccato e più volte lasciato poche possibilità di reagire, ma il mio mondo affettivo ha sempre creduto e lottato fino alla fine con forza, portandomi a vincere la malattia e ad aprire una nuova vita, la vita vera. Quando parlo della lotta, intendo la speranza e la determinazione alimentata dall’affetto, dal sostegno e dalla partecipazione che ho trovato nelle persone valide che si prendevano cura di me che mi facevano percepire la possibilità di vita.
Tutti sappiamo che la malattia agisce sul corpo, ma la mia esperienza mi ha fatto comprendere che non ha il potere di annullare chi siamo; esiste, infatti, una forza dentro di noi, che se alimentata dal rapporto umano è speranza e desiderio, che in alcuni casi, come il mio, può anche sconfiggere una malattia così severa.
I miei genitori hanno vissuto con me tutti quei momenti e, nonostante la tremenda paura, hanno cercato di non arrendersi mai di fronte alla malattia. Nella mia stanza, c’erano bambole e barbie con la bandana al posto dei capelli, c’erano libri pieni di disegni da colorare e tante videocassette di cartoni da vedere e registrazioni per imparare a leggere e a contare. Perché la mia stanza era anche la mia “scuola”. Non c’erano banchi e sedie ma un letto comodo con un tavolino con le rotelle che, magicamente, si spostava facilitandomi la scrittura. Non c’erano i compagni seduti accanto a me ma avevo l’onore di sbirciare tutti i loro quaderni e ascoltare, ogni giorno, i loro racconti. La mia maestra era diversa dalla loro, era la mia mamma, decisa a farmi imparare tutto ciò che dovevo e desiderosa di farmi apprendere le stesse competenze dei miei compagni, che presto guarendo avrei potuto raggiungere a scuola.
Accanto a me e ai miei genitori ci sono sempre state altre persone che hanno lottato insieme a noi: i medici e gli infermieri, per un anno, hanno curato il mio corpo ma non solo, si sono presi cura di me sotto ogni aspetto, comprendendo il dolore e la difficoltà di una bambina di 5 anni, costretta a vivere una vita altra, diversa dai suoi coetanei, senza corse al parco e giochi in compagnia, una vita interrotta dal ricovero ospedaliero. Ho avuto la fortuna di incontrare medici e professionisti sanitari non rigidi e chiusi nel loro ruolo, ma persone che mi hanno curato con amore.
Certamente non tutte le mie richieste potevano essere soddisfate: uscire durante la chemio, invitare i miei amici nella mia stanza; ma altre invece sono state accolte e trasformate in un gioco, anche chiudendo un occhio sul protocollo da seguire. Così l’asta portaflebo è diventata il cagnolino Bobby che doveva fare pipì almeno due volte al giorno, consentendomi di passeggiare in corridoio, anche se fuori dai limiti del consentito. I professionisti che mi hanno curata per fortuna non hanno mantenuto quella “distanza di sicurezza” per non rischiare di rimanere troppo coinvolti emotivamente ma hanno scelto di mettere in primo piano il rapporto, veicolo essenziale non solo per la terapia ma anche per la mia guarigione. I miei medici, i miei infermieri, di cui ricordo anche i nomi, con cui ho mantenuto i rapporti per anni anche dopo la dimissione dall’ospedale e la remissione totale della malattia, erano e sono persone meravigliose che ricordo con affetto franco e profondo, non solo per avermi salvato la vita, ma soprattutto per aver integrato il protocollo medico con il sapere umano e affettivo: si lasciavano truccare come clown da me, una bambina che amava i colori, non si infastidivano di disinfettare più volte al giorno ogni oggetto che mi cadeva a terra. Anche i fisioterapisti erano speciali, infatti il mio esercizio per non perdere la motricità degli occhi e delle mani era quello di divertirmi a comporre bracciali di perline colorate che poi i medici stessi, dopo averli comprati, indossavano felici ogni giorno. Era un reparto molto colorato.

Solo oggi, a distanza di anni, riesco a comprendere quanto quel periodo, sia stato per me una grande occasione. Ho avuto l’opportunità, infatti, di sperimentare la capacità vitale del rapporto umano che può anche guarire, che ridà la vita. La determinazione con cui tutti mi hanno permesso di vivere quest’esperienza, il più possibile, come se fosse un lunghissimo gioco, mi ha permesso di comprendere cosa significa interessarsi all’altro. Il gioco è stato il tramite umano per accettare, contenere e trasformare una realtà così dolorosa e violenta in possibilità prima e guarigione poi. Il gioco è infatti rapporto umano. È stato proprio questo il canale che ha permesso ai farmaci di agire positivamente e cambiare il decorso della mia malattia, consentendo la cura.
Oggi quella bambina è diventata una donna che porta con sé l’esperienza vissuta e può sorridere ripensando alla sua storia, perché la maggior parte dei ricordi che ha, nonostante tutto, sono carichi di affetto e hanno rappresentato la salvezza, la possibilità di trovare, anche nel più buio dei mali la voglia di rinascere.

A distanza di anni mi rendo conto che tutti i miei rapporti importanti sono stati fecondati da questa esperienza così importante che io stessa ho scelto di intraprendere una professione sanitaria, di essere psicologa. Oggi in qualsiasi patologia che il paziente mi racconta porto con me il ricordo di quella comprensione, quel calore, quella partecipazione che congiuntamente alla mia psicoterapia mi hanno permesso di continuare un cammino di trasformazione e crescita che ad oggi mi consente di rapportarmi realmente con il paziente in cui non vedo solo il disturbo ma la possibilità di impegno reciproco, partecipazione, trasformazione e dunque cura.

Questo è il racconto di una paziente ematologica che può guardare con occhi consapevoli la sua storia.
Gli stessi occhi che dovrebbero avere i medici che si occupano di pazienti con malattie silenti ma profondamente rumorose, di un rumore fatto di ansie e paure, di rabbia e disperazione che fanno crollare ogni piccola certezza e perdere ogni punto di riferimento.
Il medico sa bene di avere la responsabilità non solo organica ma anche umana quando prende in cura adulti ma soprattutto bambini affetti da una patologia così severa; paziente che non sanno se riusciranno ad affrontare e superare la malattia e vivono la condizione di doversi affidare completamente a qualcuno sul quale riporre tutte le speranze per uscire da quell’incubo. Per questo è necessario rispondere non solo alla malattia fisica ma anche ai vissuti affettivi. Ma chi c’è dall’altra parte a rispondere a tutto questo? Può un medico che si trova quotidianamente a doversi occupare di decine di malati non sentirsi sopraffatto dal dolore e rispondere in modo professionale dal punto di vista umano e medico?
Sostenere, aiutare e soprattutto saper gestire il malato diventa un compito complesso ed impegnativo. Troppo spesso i professionisti sanitari sono lasciati soli nella presa in carico del paziente, senza un adeguato supporto che permetta loro di confrontarsi e rispondere ogni giorno con le tantissime realtà umane a cui devono far fronte che non riguardano solo la patologia, il malato e i suoi familiari, ma anche il medico stesso.
L’unica strada percorribile, comune ad entrambi, medico e paziente è il rapporto che passa per uno sguardo, per una frase, per quel tempo dedicato al paziente che solo così non si sentirà visto come un numero, un protocollo, una patologia, o considerato in funzione dell’organo ammalato, ma accolto come una persona, tenendo conto dei suoi interessi, dei suoi desideri e dei suoi affetti, come è stato in grado di fare il fisioterapista con il gioco dei braccialetti per esercitare la motricità fine.

Un prendersi cura che fa uscire dall’onnipotenza di dover salvare tutti o dall’impotenza di non poter salvare nessuno, a prescindere dall’esito della malattia.

Dott.ssa Paola D’aiuto
Dott.ssa Alessandra Garofani
Dott.ssa Natasha Santicchia

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