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Correva l’anno 1958 quando il dr. William Higinbotham, ricercatore presso il Brookhaven National Laboratory, realizzò il primo videogioco della storia: “Tennis for two”, che nemmeno si giocava su un televisore bensì su uno strumento da laboratorio chiamato oscilloscopio.

È molto difficile che il dr. Higinbotham avesse previsto a che cosa il suo giochino avrebbe portato, solo sessant’anni più tardi: infatti attraverso la sua complicata e ramificata storia, questo passatempo ha trasformato in modo altrettanto complesso la propria definizione.

Tutti noi oggi ne abbiamo in testa diverse immagini: ci viene in mente un gruppo di persone che giocano tutte insieme con una Nintendo Wii, amici che si sfidano in un torneo di FIFA, dei bambini che giocano con un Game Boy o, più tristemente, adolescenti problematici che hanno sostituito la propria vita reale con un equivalente digitale.

Negli ultimi dieci anni si è anche sviluppata quella “cosa” modernissima e sorprendente che sono gli e-sport, ovvero le discipline sportive elettroniche in cui squadre di giocatori si affrontano a “League of Legends”, “Overwatch”o “Fortnite”, di fronte a stadi pieni di decine di migliaia di appassionati, contendendosi premi di milioni di dollari.

Questa trasformazione radicale, subita dai videogiochi nel corso di sessant’anni, si riflette in una simile trasformazione nel modo in cui le persone, in particolare i ragazzi, ci giocano.

Che cosa c’è nei videogiochi che attira o addirittura irretisce i giovani al punto da creare correnti e mode di questa portata? Da persona appassionata di videogiochi da più tre quarti della propria vita, un’idea me la sono fatta.

Escludiamo il caso del videogioco usato come passatempo di gruppo, in modo saltuario, come giocare alla Playstation con gli amici ogni tanto perchè semplicemente non c’è molto da dire: non porta all’isolamento, non distrae dalla scuola, non diventa un’alternativa all’uscire. È un’attività da fare insieme, quando se ne ha voglia.

È diversa la situazione di un ragazzo che gioca continuamente, trascurando i rapporti con gli amici o lo studio. Un ragazzo come me, per dire, almeno fino ad alcuni anni fa.

Per parlare di questo, è essenziale chiarire immediatamente un aspetto del problema: a mio avviso i videogiochi non sono una malattia, sono un sintomo. In modo molto generale, potremmo dire che ciò che si cerca all’interno dei videogiochi è gratificazione, identità, libertà, a volte rapporto con gli altri. Se però tutte queste realtà non sono connesse a ciò che viviamo nel mondo reale, sarà lampante che ciascuno di questi aspetti sarà un surrogato di quello “vero”, non paragonabile alla realtà.

Non dobbiamo dimenticare però che, se lo scopo è capire perchè un ragazzo sia capace di rinunciare alla sua vita e viverne una virtuale, allora dobbiamo guardare le cose come le vede lui, non come le vediamo noi.

Le cause possono essere tante e spesso sono molto antiche: scarsa fiducia in sè, paura di essere inadeguati e medocri, senso di solitudine. I motivi per cui un bambino, prima, ed un adolescente, poi, si senta così è un tema complesso e non ne discuteremo adesso, ma tutti questi fattori possono spingerlo a cercare sollievo in un’alternativa alla vita reale, come i videogiochi.

Nel mio caso, da bambino non mi trovavo bene in classe e tendevo ad isolarmi dai miei compagni, tatnomeno mi trovavo bene a casa e tendevo ad isolarmi dalla mia famiglia. Vivevo un profondo senso di solitudine, mi sentivo inutile, brutto ed infelice, pensavo di non avere alternative a questa condizione e me ne sentivo imprigionato, forse per tutta la vita. Lentamente ero passato a vedere le persone che credevo mi stessero trattando male come nemici, ero sempre più arrabbiato con loro e volevo solo starne alla larga.

Questa è la ragione per cui cercavo rifugio nella fantasia, la alimentavo con i libri, ma ho poi trovato un palliativo molto più efficace nei videogiochi.

Poter impersonare il protagonista di un videogioco, vivere le sue avventure e superare le avversità nei suoi panni era un’esperienza galvanizzante per un bambino come lo sono stato io. Il protagonista di un videogioco di avventura è spesso una persona che si ritrova ad affrontare un nemico fuori dal comune per uno scopo nobile, a prendere decisioni difficili per le quali si batterà per sostenere le conseguenze, ed è sempre accompagnato da un fedele gruppo di amici. Sono storie di personaggi eroici che hanno la forza ed il coraggio necessari a sconfiggere i nemici, proteggendo i più deboli.

Dietro la passione per questo genere di videogame c’è dunque il desiderio di avere le stesse qualità del protagonista, in particolare la sua stessa capacità di prendere in mano la propria vita e raggiungere il proprio obiettivo, nonostante le difficoltà. Per un ragazzo che si è ritirato in se stesso al punto di perdere fiducia nelle proprie capacità, vestire i panni virtuali dell’eroe di questi giochi rappresenta un’ancora di salvezza, una conferma, anche se molto astratta, che è possibile avere coraggio, trovare amici fedeli o un amore sincero, che rimangano nonostante i difetti e nonostante le avversità.

Quindi cominciamo a delineare l’idea che un videogioco non sia solo un passatempo, ma anche uno strumento per cercare qualcosa, le capacità che crediamo di non avere più. Possiamo fare un discorso simile anche per un genere apparentemente molto lontano dai giochi di avventura, cioè i videogiochi online.

In questo genere, i ragazzi e le ragazze si connettono ad arene online per misurarsi con altri giocatori. Spesso trovano compagni di gioco abituali, con cui nascono alleanze o rivalità.

Questo genere di rapporti, per quanto da fuori possa sembrare estremamente superficiale, per l’adolescente immerso nel gioco diventa in realtà profondo e sincero.

Io stesso ricordo ancora con un certo affetto, alcuni dei miei compagni di gioco, con i quali, quasi quindici anni fa, parlavo molto a lungo mentre giocavamo insieme.

Per quanto la tentazione di sminuire questo genere di amicizie sia forte, questi rapporti virtuali possono essere per i ragazzi una vera ancora di salvezza, perchè, pur vivendo il gioco anche come difesa, riescono a trovare in quegli amici e confidenti quello che non vivono con i compagni di scuola.

Oltre a questo, la competizione nel gioco online diventa per l’adolescente la possibilità di eccellere nel confronto con gli altri giocatori; una conferma di avere un valore e di essere bravo in qualcosa. Il videogioco diventa così una misura delle qualità dei ragazzi e proprio per questo essi si dedicano anima e corpo a studiare il gioco e a migliorare le proprie abilità, a discapito degli altri aspetti della propria vita. Un’importante conferma che le potenzialità di successo che i ragazzi intravedono nei videogiochi esistano davvero, viene dai pro-gamers. Questi giocatori eccezionali si sono conquistati degli sponsor e vengono pagati per giocare, contendendosi premi milionari. Sono dei modelli per gli appassionati di questi giochi e vengono considerati vere e proprie rockstar.

L’altra faccia di questa dedizione è la rabbia incontrollata che fluisce nelle chat delle partite: se un adolescene ritrova le proprie qualità eccellendo nel gioco, nel momento in cui viene sconfitto quelle qualità vengono distrutte. Mi ricordo molto bene, quando avevo diciotto o diciannove anni, quante volte giocando a League of Legends mi è capitato di arrabbiarmi in modo sproporzionato per aver perso, o di aver fatto arrabbiare in modo sproporzionato un altro giocatore per averlo sconfitto. Forse alla luce del discorso fatto possiamo capire il perché. Ogni volta che il videogioco mi tradisce per mano di un giocatore più bravo, allora la conferma delle mie qualità viene meno e io ritorno la persona brutta, stupida e fallita che mi sentivo prima di iniziare a giocare. Mi sembra che quel giocatore più bravo abbia il potere di farmi tornare una nullità, in un certo senso uccidendomi. Ecco perchè lo odio così tanto.

Da quello che abbiamo discusso fin’ora, emerge una conclusione molto importante: i videogiochi, per un ragazzo o una ragazza che si sentono persi, rappresentano anche la ricerca di una via d’uscita. Che sia perchè si vestono i panni digitali di eroi, perchè si incontrano persone con cui si cerca di stringere amicizia o perchè si ritrova l’autostima nella propria bravura nel gioco competitivo, i videogiochi, usati in questo modo ossessivo, rapprensentano la ricerca di uno strumento per uscire da una posizione angosciosa e solitaria. Il loro valore non può essere ignorato perchè proibire ad un ragazzo in questo stato di giocare ha come effetto di separarlo dalla sua ancora di salvezza, della scappatoia dal mondo da cui si sente così gravemente aggredito ed emerginato.

Il percorso per aiutarlo o aiutarla, quindi, deve passare per il riconoscimento del valore di ciò che il ragazzo trova in un videogioco.

Per quanto sia uno strumento parziale, perchè la possibilità di cambiare la propria vita in meglio, di stringere rapporti, di essere eccellente sembrano qualità chiuse dietro lo schermo, in realtà è possibile aiutare i ragazzi a capire che queste qualità non sono nel videogioco, ma nel videogiocatore, e possono essere portate e condivise all’esterno ed essere vissute al di qua dello schermo.

Nel rapporto con i videogiochi, i ragazzi manifestano contemporaneamente il desiderio di vivere una vita fatta di rapporti autentici e di desideri realizzati e anche la difficoltà nel riuscirci, che si risolve in questa forma di palliativo.

Quindi per aiutarli gli adulti che li circondano hanno bisogno di mostrare loro che tutte queste possibilità possono essere trovate anche all’esterno del videogioco, ed essere vissute in prima persona, senza un avatar come intermediario.

Rinunciare a capire tutto questo, valutare il videogioco solo come una perdita di tempo, come una droga da cui bisogna staccarsi, sono atteggiamenti che portano a quelle reazioni di rabbia furibonda che saranno tristemente familiari ai genitori di questi ragazzi (compresi i miei).

È una misura che va semplicemente a rimuovere un palliativo: rimosso il videogioco, senza dare alternative, l’adolescente semplicemente si ritrova di fronte al se stesso che lo angoscia così tanto, e tutto ciò che si ottiene è inasprire la convinzione che senza videogiochi si sta male in modo insopportabile.

Da persona che ha fatto questo cammino, riconosco che non è stato assolutamente facile scoprire che il me stesso che emergeva giocando, un me stesso che mi piaceva perchè era bravo in quello che faceva circondato dai suoi amici virtuali, poteva essere portato nel mondo reale. Ho potuto farlo grazie alla presenza adulti in grado di comprendere, aiutare e rispondere alle esigenze profonde, affettive, che il mio mondo interno comunicava attraverso l’uso parziale e “disagiato” dei videogiochi.

Se gli adulti riescono a fare questo, saranno il ragazzo o la ragazza stessi a trasformare il proprio rapporto col videogioco: una volta viste e realizzate le proprie possibilità nella vita reale, il videogioco non sarà più un modo di isolarsi dalla realtà, ma qualcosa ad essa collegato. Sarà possibile giocare con gli amici in carne ed ossa, o conoscere gli amici virtuali, salvare la galassia mentre si prende una laurea, trovare l’amore dentro e fuori lo schermo nello stesso momento.

Mattia Boldrini

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