“Etero in greco vuol dire diverso. Ed etairos in greco dorico vuol dire amico. Dunque il diverso è anche amico, altrimenti la democrazia non esiste. I greci lo sapevano. È bene saperlo anche noi”. Con queste parole, qualche tempo fa, Roberto Vecchioni si è espresso sul concetto di diversità, associando l’aggettivo greco ἕτερος alla parola ἑταῖρος che significa amico, compagno, addirittura amante.
Una connessione significativa, quella proposta da Vecchioni, che scegliamo per la giornata di oggi dedicata alla diversità culturale, al dialogo e allo sviluppo, per alcune ragioni. Anzitutto perché ci ricorda che la Grecia è il fondamento della nostra cultura, quella europea, e in secondo luogo perché apre ad un pensiero di più ampio respiro sul diverso. “Dialogo”, “cultura”, “diversità” sono termini tanto basilari quanto pericolosamente retorici ai quali noi europei sembriamo assuefatti. Si tratta di un’assuefazione diffusa legata ad un progressivo disamore per la nostra storia più o meno recente, fatta da una parte di conflitti e di tradimenti e, dall’altra, di tentativi di dialogo con esseri umani da noi apparentemente lontani e a noi apparentemente estranei, con storie difficilissime che non conosciamo ma sulle quali ci pronunciamo – spesso a sproposito. Pur avendo approntato timidi tentativi di dialogo e di comprensione, noi europei non ci siamo accorti che tali tentativi sono rimasti teorici poiché, ancora oggi, fatichiamo a tradurli in una pratica condivisa. Per questo ci suonano retorici e non ne riconosciamo più l’autenticità.
Anni fa, alcuni amici nordamericani, sudamericani e australiani mi fecero riflettere su un grande privilegio di cui noi europei non prendiamo atto: ci basta muoverci di poche centinaia di kilometri per poter parlare una lingua straniera, immergerci in una cultura tanto vicina quanto diversa, essere in contatto con persone che condividono un retroterra differente dal nostro. Siamo immersi in una condizione di ricchezza tale che, se ben impiegata, genera confronto e crescita, se mal utilizzata, genera conflitto e frammentazione. Purtroppo, e lo sappiamo molto bene, l’idea di Europa a noi più comune non è associata alla visione del diverso di cui ci parla Vecchioni né alla costruzione di ponti, bensì a ciniche parole e a sterili concetti esclusivamente legati alla finanza e alla convenienza – o, se vogliamo, alla non convenienza – di far parte dell’Unione Europea, alla concorrenza economica, al PIL, ai finanziamenti europei.
Eppure, non è stato sempre così e, soprattutto, non è solo così. Per combattere quel senso di assuefazione, quel disamore e per recuperare un po’ di verità proviamo a viaggiare indietro nella nostra storia e comprendiamo dove e perché è nata l’idea dell’Europa unita. Si tratta di un’idea alla quale noi, tutti presi dal senso di superiorità o di inferiorità rispetto a nazioni a noi vicine, non pensiamo più. Pochi di noi sanno che l’Europa ha inizio come un progetto concepito nel bel mezzo della seconda guerra mondiale e che porta il nome del Manifesto di Ventotene. Nato dalle menti di uomini e donne dissidenti, antifascisti, esiliati su una piccola isola e immersa nel Mar Tirreno, questo manifesto fu ideato e scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni ed Ursula Hirschmann. Ancora oggi, quel documento costituisce il fondamento dell’Unione Europea. Significativo, mi sembra, al di là del peso storico e politico del manifesto in sé che qui non miriamo ad approfondire, il sottotitolo che gli autori di questo scritto scelsero e sul quale vorrei soffermarmi: “Per un’Europa libera e unita”. Poche parole che, se lette nella prospettiva dell’equazione diverso-amico, ci svelano molto.
Il “per” un’Europa si profila come un “verso” e dà l’immagine di un ponte che punta al dialogo, all’incontro tra esseri umani dilaniati dal conflitto mondiale, dal fascismo, dalla competizione, dal campanilismo dei nazionalismi e pronti a incontrarsi.
Si parla poi di un’Europa “libera”, di scoprire il “vicino” come diverso da sé e, in quanto amico, compagno, “amante”, pronto a costruire un legame. Liberi sono i rapporti umani quando sono scevri dal pregiudizio, quando si scrollano di dosso il peso materiale del denaro e del consumo delle cose e gettano un ponte verso l’altro. Gli uomini e le donne sono libere quando mettono da parte il disamore e si dedicano alla scoperta dell’altro, quando si danno da fare per trovare una soluzione che rispetta la diversità degli individui inseriti in un gruppo. Si è uniti, infine, quando non c’è spazio per derive individualistiche ma quando, come gli uomini e le donne di Ventotene, ci si ritrova su un’isola nel bel mezzo del Mediterraneo e si mettono per iscritto delle idee coraggiose ed apparentemente utopiche ma che, con il tempo, crescono e fioriscono per dare vita ad un progetto politico concreto.
Queste poche riflessioni, che abbiamo legato all’Europa e al Manifesto di Ventotene ma che vogliamo estendere a ogni realtà umana, intendono sottolineare che quelli del dialogo e della diversità culturale rimarranno discorsi teorici e retorici se noi per primi proporremo una concezione esclusivamente consumistica, territoriale e opportunistica dell’Europa e, dunque, delle connessioni che la compongono, la rendono viva e dinamica. Come ci insegnano i greci e come hanno compreso gli scrittori del manifesto di Ventotene nella storia più recente, noi europei conosciamo bene la forza del diverso e il senso del dialogo proprio perché è da lì che proveniamo ed è lì che, nella storia, siamo sempre ritornati. Per questo dovremmo tornare ad innamorarci, non a disamorarci, a destarci, non ad assuefarci, a costruire ponti, non a distruggerli.
Giuliano Lozzi
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