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L’Odissea racconta la storia di un viaggio e di un ritorno. Sappiamo che il viaggio che Odisseo compie parte da Itaca per attraversare il mondo di cui allora si aveva percezione, ossia il Mar Mediterraneo, il mare nostrum. La sua è, lo apprendiamo sin dai tempi di scuola, un’impresa piena di insidie e di trappole: ricordiamo la fuga da Polifemo attraverso lo stratagemma di “nessuno”, l’incontro con la maga Circe che trasformò i compagni di Odisseo in maiali e ricordiamo il suo amore per Odisseo, richiamiamo le ammalianti voci delle Sirene e il pericolosissimo passaggio tra Scilla e Cariddi. Mostri marini, personaggi doppi, scoperte inaspettate. Il viaggio di Odisseo e dei suoi compagni, pieno di insidie, non tutte senza perdite, ma anche di realizzazioni, si conclude con il ritorno ad Itaca, dopo dieci anni. Dieci anni di fatica, certamente, ma anche dieci anni di apprendimento, di lotta, di presa di coscienza conclusi con un ritorno a casa.

Lo scenario di questa epica impresa è il mare, e non un mare qualunque, ma il nostro mare: il Mediterraneo. Il mare che ci circonda e nel quale siamo immersi è ricco di storia, di battaglie, purtroppo di tanti morti, di scoperte, ed è stato e continua ad essere oggetto di ispirazione poetica, cinematografica nonché scenario di miti a cui ancora oggi sentiamo di appartenere poiché rappresentano il fondamento del nostro pensiero. Ciò che oggi ci interessa approfondire però, non è tanto il significato, pur fondamentale e che già abbiamo altrove già affrontato, che oggi il Mediterraneo rappresenta per tanti migranti, quanto piuttosto comprendere il valore che il viaggio di Odisseo ricopre per ognuno di noi: quello dell’eroe greco è, infatti, il viaggio che ognuno di noi compie e può compiere ogni giorno, il percorso che accompagna la nostra crescita. Molti di noi partono per lunghi viaggi per non ritornare, molti si lanciano in brevi avventure, altri ancora non partono affatto. Tuttavia il fulcro del viaggio non è solo nel senso fisico o materiale del termine: ciò che Omero o i cantori che l’hanno preceduto volevano comunicarci, o meglio, insegnarci è che dobbiamo essere in grado di favorire la spinta alla conoscenza che ogni essere umano possiede, alla nascita. Certo, s’intende, tale spinta è favorita dall’esperienza del viaggio in sé, poiché il distacco fisico dal luogo dei nostri affetti facilita un confronto più immediato con la diversità. Ma è presto detto: la spinta che muove Odisseo è una curiositas squisitamente umana, un desiderio di conoscere, di mettersi in rapporto con l’alterità perché è con quel desiderio di stare con l’altro che siamo nati. Non è un caso che Omero scelga il mare come vero protagonista della sua epopea: l’acqua è l’elemento dal quale proveniamo e che ci mette in contatto con le nostre parti più antiche, più profonde, più irrazionali, semplicemente più “nostre” di noi. Il mare nostrum, allora, è nostro non tanto in senso “geografico” ma in termini di sentire e di percepire: è il simbolo della nostra ricerca interiore, del nostro essere in grado di tendere verso una conoscenza che, per essere davvero e completamente tale, deve affrontare le nostre sirene, i nostri ciclopi, le nostre maghe circe per poi indurci, rafforzati, a tornare a casa. Un ritorno a casa, il nostos, che è un ritorno a noi, un ricompattarci con la nostra nascita dopo un viaggio attraverso il mare. È lì che nasce la conoscenza che è incentivata sì dall’esplorazione di posti belli e sconosciuti ma si compie confrontandoci con le parti più o meno oscure di noi. Il risultato di quel viaggio sta nel fare in modo che queste due parti dialoghino, nel sapere che la spinta positiva della curiositas può, anzi, deve portarci ad affrontare prove difficili, e che saranno sempre più difficili in concomitanza con la nostra crescita. Il faro che può guidarci è però, sempre, il mare nostrum, il nostro mare interno che, come la certezza che abbiamo avuto alla nascita, ci porta ogni volta a ri-nascere e a ritornare verso la nostra Itaca.

Giuliano Lozzi