Le prime olimpiadi estive dell’era moderna risalgono al 1896 e richiamano una delle attività che agli antichi greci stavano più a cuore: lo sport. I giochi olimpici ci regalano da oltre un secolo immagini memorabili, talora paradossali, scolpite nella nostra mente. Sono immagini legate ad eventi che hanno spesso cambiato il corso della nostra storia: il pugno alzato in difesa dei diritti dei neri a Città del Messico, la vittoria dell’afroamericano Jessie Owens nelle olimpiadi organizzate dal regime nazista, la corsa di Kerri Strug nel volteggio nonostante l’infortunio alla caviglia ad Atlanta, e ancora il celebre “10 perfetto” di Nadia Comaneci a Montreal, fino alla più recente condivisione della medaglia d’oro tra Tamberi e Barshim proprio a Tokyo.
Sono storie di lotta individuale, di duetti, di squadre, di umani che ci sembra vadano ‘oltre’ l’umano. Rimangono spesso impressi nell’immaginario degli spettatori gli sguardi degli atleti prima delle loro gare: concentrati, con gli occhi apparentemente fermi, dritti verso l’obiettivo, tanto profondi da sembrare provenienti da un altro pianeta.
La realtà è, invece, che i giochi olimpici sono forse i momenti più autentici e più “umani” della nostra storia perché raccontano le tappe della nostra evoluzione, ci dicono molto del nostro passato e del nostro presente. Sono, inoltre, l’unica manifestazione che punta a riunire il mondo e il cui “spirito” punta ad abolire le differenze tra il nord e il sud grazie a quei cinque cerchi intrecciati che, simbolicamente, ci ricordano non solo l’unione tra i diversi continenti ma anche l’importanza di riconoscerci nelle differenze di nazionalità, di sesso, di identità di genere, di etnia. Ed è questa, per quanto possa sembrare banale mentre banale non è, la forza dello sport.
Ma cos’è lo sport? Perché è tanto importante per l’essere umano?
Perché ci appassiona tanto da farci svegliare nel cuore della notte per guardare una gara – parlo per i più entusiasti? Lo sport è un linguaggio universale, espressione di un sé che si mette costantemente alla prova, in maniera individuale o di squadra. Una prova che, per un atleta, è fatica e impegno fisico, determinazione e perseveranza, ma è anche molto altro: è il perseguire un desiderio profondo per raggiungere un obiettivo a volte apparentemente impossibile. Richiama un po’ quello sguardo “alieno” che punta dritto davanti a sé per andare oltre i propri limiti, si dice, mentre in realtà l’obiettivo di ogni atleta, così come quello ogni essere umano, è di realizzarsi.
Questo desiderio si può perseguire individualmente sì, ma anche stando in rapporto o ricordando il rapporto con l’altro. Sport come il nuoto, la ginnastica artistica o il judo sono infatti noti come attività individuali ma lo sono solo sulla carta poiché, in realtà, quegli atleti sono sempre supportati da un lavoro di squadra “dietro le quinte” che permette loro di sentirsi al sicuro, protetti e sempre ben preparati. Nella vita, come nello sport, senza il rapporto interumano, non si gareggia e, quindi, non si vince.
L’edizione di Tokyo appena conclusa è stata sofferta e unica per diversi motivi.
Sofferta perché, per la prima volta, i giochi sono stati posticipati e non sono stati cancellati come fu l’esempio delle tre edizioni del 1916, del ’40 e del ’44 durante le guerre mondiali.
Sappiamo inoltre che, fino al giorno prima della cerimonia d’apertura, l’inizio di questi giochi era incerto per via dei contagi che hanno coinvolto i diversi team e delle proteste da parte di molti cittadini giapponesi. Molto controversa, inoltre, è stata la decisione da parte del comitato olimpico di andare a fondo nonostante le difficoltà e di mantenere l’anno 2020 nella denominazione ufficiale. C’è chi ha letto il mantenimento del 2020 come una decisione legata al desiderio di non cancellare un anno travagliato per il mondo intero e chi, invece, come un’incapacità di guardare avanti e di lasciarsi il passato alle spalle.
L’edizione giapponese è stata unica perché, come dicevamo, quei cinque cerchi si sono davvero fusi dando rilievo non solo alla diversità tra i continenti ma anche all’estrema varietà delle storie personali degli atleti che, forse per la prima volta, hanno espresso la propria identità, le proprie fragilità, il proprio mondo affettivo: è stato il caso di Laurel Habbar, la prima donna transgender nella storia dei giochi, dei numerosi coming out ma anche del clamoroso ritiro di Simone Biles preoccupata per la propria salute mentale; anche dal lato italiano, l’edizione di Tokyo ha rappresentato un record assoluto non solo guardando al medagliere ma anche guardando alla varietà e all’importanza delle storie dei singoli atleti: è stata l’olimpiade della pallavolista Paola Egonu scelta come portabandiera del comitato olimpico internazionale; del maratoneta di origini marocchine El Fathaoui che, per vivere, lavora come operaio metalmeccanico e si allena tra un turno all’altro; del velocista Fausto Desalu che ha dedicato la medaglia d’oro a sua madre nigeriana la quale non ha potuto seguire la vittoria del figlio perché era in servizio come badante.
Sono storie diverse, straordinariamente comuni e provenienti da tutto il mondo. Un mondo che, al di là delle decisioni politiche controverse e malgrado la terribile pandemia che ha condizionato le competizioni e che ancora tanto ci fa soffrire, si è simbolicamente ritrovato a gareggiare in una sola città, in uno spazio delimitato che, per un piccolo periodo di tempo, si è trasformato nella capitale del mondo sportivo – e non solo.
La pandemia mondiale non ha fermato il desiderio di sportivi ed appassionati, non ha distolto lo sguardo degli atleti né ha intaccato la passione degli sportivi. Il desiderio che lo sportivo sente di realizzarsi, supportato dai compagni di squadra e dai tecnici, sembra essersi sposato nelle olimpiadi di Tokyo con la speranza che ognuno di noi nutre internamente nel fare in modo che la perseveranza, il “saper” e il poter contare sul rapporto interumano, la capacità di sapersi riconoscere e nel saper riconoscere il diverso da noi siano in realtà lo strumento più autenticamente umano a nostra disposizione per trasformare e trasformarci.
Giuliano Lozzi e Carolina Monari